domenica 17 maggio 2020

Rough Animals / Ruvide bestie: di traduzione e altri animali II

Il Bryce Canyon National Park, nello Utah. Alcune scene del libro si 
svolgono vicino ad archi di roccia come questo.
Visto che in questo periodo non si può viaggiare, per placare questo desiderio vi proponiamo la seconda puntata di un viaggio negli spazi aridi e sconfinati del West americano raccontati nel romanzo Rough Animals di Rae DelBianco, accennando en passant anche ai viaggi (quelli sì, reali) che abbiamo fatto mentre lo traducevamo.

Nella puntata precedente abbiamo descritto il nostro approccio alla traduzione di questo intenso romanzo di esordio, e cioè quali ricerche abbiamo fatto per prepararci a tradurlo e cosa abbiamo scoperto: la biografia della giovanissima scrittrice (un tipo davvero fuori dagli schemi!), le sue fonti di ispirazione, i temi affrontati nel libro, i personaggi che lo popolano (anche loro fuori dagli schemi).

In questo post entriamo invece nel vivo del lavoro della traduzione letteraria presentando alcuni casi interessanti che abbiamo affrontato mentre traducevamo le pagine di Rough Animals, come sempre a quattro mani.

E vai con la traduzione

Come si fa a lavorare in due alla traduzione dello stesso romanzo? Sappiamo di altri colleghi che lo fanno ripartendosi il testo in modo che, ad esempio, uno traduca tutti i dialoghi e l’altra tutte le parti più descrittive. Noi ci limitiamo a contare il numero di pagine e dividerle esattamente in due: una traduce dall’inizio a metà romanzo e l’altra da metà alla fine. Fino a pochi anni fa le redazioni ci spedivano il libro su cui lavorare e allora ci alternavamo a metterlo su un leggio accanto al computer; da un po’ di tempo a questa parte invece ci mandano il Pdf, che scarichiamo sul tablet da 10 pollici, ora disposto su un leggio molto più piccolo e portatile. È una soluzione comoda soprattutto quando lavoriamo in viaggio, perché così lo zaino non si riempie più di libri o di fogli stampati.


In fase di traduzione in genere procediamo con cura ma anche abbastanza rapidamente, perché il grosso del lavoro lo facciamo dopo, durante la doppia revisione, quando riconfrontiamo il testo riga per riga con l’originale e lo aggiustiamo, riscrivendone alcune, o molte parti (il procedimento è descritto in dettaglio in questo post). In quella fase le scelte traduttive si consolidano e si produce una versione quasi definitiva, prima delle rifiniture che aggiungeremo rileggendo il testo su carta (perché per qualche misterioso motivo su carta tutto appare più chiaro: i refusi brillano di luce propria e le parti ancora goffe saltano all’occhio molto più che dallo schermo di un computer).

Il romanzo di Rae DelBianco, però, si è rivelato un’eccezione alla regola (come lo è stato da tanti altri punti di vista): anche la fase di traduzione è stata lentissima, perché spesso le immagini erano insolite e ci costringevano a controllare più volte ogni parola di ogni frase per essere sicure di aver capito bene. Qualche esempio? Ecco la faccia di Smith, deturpata da un incidente:
Il volto di un uomo di ventitré anni che aveva la solennità di una roccia e di tutto ciò che vi si era fossilizzato, la cui qualità terrigna era rovinata solo dall’occhio azzurro di vetro malamente infilato nell’orbita sinistra. Era del colore dell’ala di un uccello e strideva con il marrone terroso del destro.
Dubbi da mal di testa

Quando proprio l’immagine ci risultava troppo misteriosa e sospettavamo che ci fosse sfuggito qualcosa abbiamo chiesto, come facciamo sempre in questi casi, l’intervento di una brava collega madrelingua americana. Ecco ad esempio una mail che le abbiamo inviato:

Ti mandiamo una frase che ci fa venire il mal di testa:

“It was not for them, confined to the lifeless ground with scavengers peeling apart a horse a quarter of a mile from them, and they no better, having scavenged the horse in the first place by the blood of fellow man.”

“Non era per loro, confinati in quella terra senza vita insieme a bestie spazzine che scorticavano un cavallo quattrocento metri più in là, e del resto loro non erano migliori, visto che per primi avevano immolato quel cavallo appena era morto il loro compagno umano.”

Il contesto è questo: la “cosa che non era per loro” è una zona di verde rigoglioso in cima a un picco irraggiungibile (loro si trovano nel deserto). Il cavallo di cui si parla portava il loro compagno Matthew che è morto poco prima, dopodiché siccome i protagonisti erano inseguiti dai coyote hanno abbattuto il cavallo di Matthew perché i coyote si mangiassero quello invece di dare la caccia a loro. Le “bestie spazzine” sono quindi i coyote, ma i protagonisti stessi non sono da meno degli animali, avendo fatto al cavallo quello che gli hanno fatto.
La parte che ci rimane difficile è l’ultima della frase, che abbiamo forzato un po’: puoi dirci se può andare o se va interpretata diversamente?

Ed ecco la versione finale della frase incriminata, cui siamo giunte dopo l’intervento della collega e vari ripensamenti:
Non era per loro, confinati in quella terra senza vita insieme a bestie spazzine che scorticavano un cavallo quattrocento metri più in là, e del resto loro non erano migliori, visto che per primi si erano serviti di quel cavallo massacrandolo non lontano dal luogo in cui il loro compagno aveva versato il suo sangue.
Quello che non avevamo colto quando le abbiamo scritto era la funzione del by in by the blood of the fellow man: significava “accanto” e non altre cose strane che avevamo vagamente intuito ma non compreso davvero. A riguardare adesso il brano, invece, ci sembra più chiaro, e non perché ormai l’abbiamo tradotto e sappiamo come fare, no: il punto è che quando si affronta una traduzione ci si "avvinghia" al testo di partenza, lo si abbraccia e lo si sviscera (e guarda caso con le viscere hanno a che fare anche parecchi personaggi di questo romanzo). A forza di avvinghiarsi al testo giorno dopo giorno per alcuni mesi, si tende a sviluppare una forma di miopia: a volte viene infatti a mancare quella distanza che permette di trovare la soluzione.

In un caso, ad esempio, per un intero capitolo di un saggio che pure avevamo tradotto e poi rivisto due volte, abbiamo continuato a chiamare la rolling suitcase “valigia con le rotelle” invece di “trolley”! Non perché non conoscessimo questa parola, ma proprio per via dell’avvinghiamento, al quale si cerca di ovviare nelle fasi successive della lavorazione del testo, che funzionano appunto come uno zoom indietro. Con il susseguirsi delle fasi aumenta la distanza dall’originale, la nostra vista di traduttrici migliora e di conseguenza migliora anche il testo tradotto (o almeno dovrebbe).

Ma come parli?

Fin dalle prime pagine ci siamo accorte che alcuni dei nostri personaggi, in particolare Wyatt e Lucy, non solo parlavano pochissimo, ma quando lo facevano era in un inglese un po’ sgrammaticato, con forme contratte come aint al posto di isn’t e una scelta lessicale piuttosto ristretta, tipica di persone poco istruite.

Questo era perfettamente in linea con le loro biografie: dal romanzo si capisce infatti che i due gemelli sono stati allevati dal padre, uomo tendente al mutismo, il quale non li ha mai mandati a scuola, ma si è limitato a insegnargli a leggere servendosi della Bibbia di famiglia.

Ed ecco un esempio del loro parlato: si tratta di Lucy, che ripensa al passato con qualche rimorso di coscienza:

Pastori sardi in una foto d'epoca. I nostri 
personaggi non possono proprio parlare come loro.
“We shouldn’t have done it this way. We shoulda called it in, even if we had to leave, even if I got in trouble—
Come rendere questa lingua? In certe traduzioni letterarie di tanti anni fa si sarebbe usato uno qualunque dei dialetti della nostra penisola, che però in bocca a due giovani allevatori di bestiame dello Utah di oggi sarebbe suonato piuttosto strano: perché mai avrebbero dovuto parlare come pastori sardi o abruzzesi?

Una possibilità più accettabile per i lettori di oggi sarebbe stata storpiare le parole italiane, ma abbiamo scelto di adottare un'altra soluzione, e cioè usare un registro generalmente basso:
«Non dovevamo fare così. Dovevamo chiamare la polizia, anche se poi ci toccava andare via, anche se mi mettevo nei guai…».
Visioni e revisioni

Finita la traduzione con tutte le sue difficoltà, siamo passate alla revisione e non solo è cambiato il nostro sguardo rispetto al testo, acquisendo una maggiore prospettiva, ma anche il panorama che avevamo intorno. A dicembre siamo state infatti invitate in una cascina del pavese per occuparci di 7, dico 7 micie! Abbiamo accettato di slancio e siamo partite con i computer, e lavorare mentre le gattine più socievoli del gruppo, una nera e l’altra grigia, ogni tanto saltavano sulla scrivania e venivano a curiosare sulle nostre tastiere è stata una vera gioia. Ogni giorno dopo pranzo facevamo una passeggiata nella pianura nebbiosa e coperta di stoppie che lambisce il Ticino, e abbiamo approfittato dell’occasione anche per incontrare amiche e colleghe che non vedevamo da tempo, parlare a un convegno cittadino sul tema dei cammini spirituali (da Pavia passano infatti la Via Francigena, la Via degli Abati e il cammino di Sant’Agostino, e noi li abbiamo percorsi a piedi tutti e tre pubblicando poi le relative guide al pellegrinaggio) e organizzare due mostre fotografiche dedicate al fiume Po, inaugurate nel corso del 2019 (Alessandra infatti è anche fotografa).  



Fra mandragole, impiccati e pistole

Naturalmente non è stato a Pavia che abbiamo trovato mandragole, impiccati e pistole, ma fra le pagine di Rae DelBianco, che ci ha insegnato cose interessanti su tutti questi argomenti. Uno degli aspetti della traduzione editoriale, infatti, è che ogni volta che affrontiamo un nuovo libro, romanzo o saggio che sia, siamo certe di imparare qualcosa di nuovo.

E nel caso della DelBianco, come potrete immaginare, si è trattato di cose piuttosto singolari. La prima riguarda, appunto, la mandragola, che viene citata di punto in bianco all’inizio di un paragrafo:
Adesso all’ombra della collina crescevano le mandragole anche se nessuno era stato impiccato.
Si tratta solo di un accenno sottotono, dopodiché l’autrice passa a raccontare che nella terra in cui crescono quelle mandragole è sepolto il padre di Wyatt e Lucy, i due gemelli protagonisti della storia. Ma perché dire che le piante crescono lì nonostante nessuno sia stato impiccato? Che cosa c’entrano gli impiccati con le mandragole?

Lì per lì non ne avevamo idea, ma quando traduciamo non possiamo ignorare nemmeno uno degli spunti fornitici dal testo, perché se l’autrice o l’autore ha scritto una data frase, non lo ha fatto certo a caso (almeno di solito). Quindi se Rae DelBianco accenna a questo legame fra mandragole e impiccati, è perché il legame da qualche parte esiste: o nella sua cultura, o in quella dei suoi personaggi, o in qualche leggenda che loro conoscono e noi no. E va cercato, perché potrebbe influenzare il significato generale di quel brano e di conseguenza il senso che dobbiamo traghettare nella lingua italiana.

La mandragola in una miniatura del 1390
Così abbiamo fatto qualche ricerca su internet, in questo caso abbastanza facile, usando le parole mandrake e hanged man. Abbiamo scoperto una serie di siti, tra cui la New World Encyclopedia, dai quali siamo venute a sapere che in passato alla mandragola erano attribuite proprietà magiche, perché le sue radici ricordano una figura umana, e si riteneva che, una volta estratte dal terreno, si mettessero a lanciare grida penetranti. Questo spunto è stato ripreso anche da J.K. Rowling: durante la lezione di Erbologia in Harry Potter e la Camera dei Segreti, infatti, le radici di mandragola vengono descritti come brutti neonati terrosi e prima di maneggiarle gli studenti devono indossare i paraorecchie. Tuttavia Rae DelBianco non si rifà a questa antica credenza, ma a un’altra un po’ più macabra: secondo alcune leggende, infatti, queste piante crescerebbero laddove un impiccato ha versato il proprio seme (o il proprio sangue); ecco perché ci tiene a dire che su quella collina non era stato appeso nessuno. 

Una volta risolto l’enigma, per noi rimaneva il problema di far capire ai lettori italiani questa frase che, lasciata così com’è, appare bislacca: alla redazione abbiamo proposto, alla fine, di inserire una brevissima nota del traduttore a piè di pagina.

Lo stesso abbiamo fatto nel caso della famigerata pistola. Diverse pagine dopo la mandragola, un personaggio secondario, Guillermo, si avvicina a Wyatt e gli dice:
«Allora, hai già dato un nome alla mia pistola?».
Smith si tolse la pistola dalla cintura, aprì il caricatore e gliela restituì tenendola per l’impugnatura.
«È tutta tua».
La frase chiave (“So, you named my gun yet?”) ci sembrava abbastanza chiara, ma non era chiaro il perché di questo dialogo, visto che poco prima i personaggi parlavano di tutt’altro e subito dopo passano a occuparsi di cose ancora diverse, e come si diceva ogni testo ha una sua coerenza e un suo senso interni, per cui in genere non accadono o non vengono dette cose prive di senso. Scava e scava siamo riuscite a ricostruire che una trentina di pagine prima Wyatt aveva lottato con Guillermo e si era preso la sua pistola.

La scena della lotta l'avevamo tradotta un paio di settimane prima: era descritta in quattro righe e terminava appunto con Smith che disarmava l’avversario, ma di questo dettaglio non ci ricordavamo più. In fase di revisione però bisogna sciogliere tutti i dubbi, quindi abbiamo fatto alcune ricerche per parole chiave all’interno del Pdf e ricostruito gli eventi che avevano portato a quella frase. 

A ogni modo, i dubbi non si sono sciolti nemmeno dopo la ricostruzione: anche se Wyatt aveva preso la pistola a Guillermo, che c’entrava infatti darle un nome? Scavando ancora nel web abbiamo trovato il sito dell’NRA, la National Rifle Association americana che riunisce i proprietari di armi da fuoco, la quale ha pubblicato un illuminante articolo intitolato proprio “Why We Name Our Guns” (Perché diamo un nome alle nostre pistole). Qui vengono riportate non una, ma ben 13 ragioni per cui la gente battezza la propria arma come se fosse un simpatico animale domestico: può essere in ricordo di una persona cara o come portafortuna, o ancora, e questa è la ragione principale, semplicemente perché le è affezionata. 

Non violenza, scultura di Carl Fredrik Reuterswärd. 
Foto di François Polito (CC BY-SA 3.0)
Affezionarsi a una pistola ci pare una stortura mentale, ma noi stavamo traducendo (e quindi dando voce alla storia dell’autrice, non alle nostre convinzioni personali), e traducendo una cultura e una particolare cerchia all’interno di quella cultura in cui dare un nome alle pistole era perfettamente normale. Così normale che quel brevissimo dialogo dava per scontate un sacco di cose non immediatamente chiare per un lettore italiano. Ciò che Guillermo implicava con la sua frase di sole 6 parole era infatti un discorso che, fatto per esteso nella nostra lingua e all’interno della nostra cultura, ne conterebbe 30, e cioè:
“Visto che qualche giorno fa abbiamo lottato e mi hai preso la pistola, adesso l’hai forse fatta tua tanto da averle dato un nome, o magari saresti disposto a ridarmela?”
Per noi era necessario capire tutto questo, anche se poi non potevamo certo tradurre aggiungendo così tanto testo che nell’originale non c’era: abbiamo perciò conservato la versione supersintetica dell’autrice ("Allora, hai già dato un nome alla mia pistola?"), suggerendo di inserire una brevissima nota esplicativa a piè di pagina (che però non è stata inserita), ma soprattutto, per quel che ci riguarda, abbiamo risolto il Famoso Enigma del Nome della Pistola.

Rilettura capoverdiana

Una volta finita la revisione, all’inizio di gennaio abbiamo stampato il testo e infilato i fogli nello
zaino: eravamo in partenza per São Vicente, una delle dieci isole che compongono l’arcipelago di Capo Verde, dove ci aspettava un mese e mezzo di lavoro intensissimo e, nei fine settimana, un’esperienza di volontariato (consigliatissima!) nel canile gestito dall’associazione Simabô. Anche l'alloggio nel quale abbiamo vissuto era dell’associazione e lo segnaliamo stravolentieri non solo perché scegliendolo si può godere di una gigantesca terrazza con una magnifica vista sulla città di Mindelo e il mare, ma soprattutto perché si contribuisce al benessere dei cani e dei gatti ospitati da Simabô, visto che il ricavato dell’affitto viene destinato tutto al loro mantenimento. Lo stesso vale per l’ostello Simabô Backpackers: si ha la possibilità di dormire in posto coloratissimo e accogliente, conoscere gente da tutto il mondo e al tempo stesso avere la certezza che la cifra pagata per l’ospitalità andrà a vantaggio dei randagi accolti dall’associazione e salvati così dallo sterminio periodico messo in atto dalle autorità locali.
Quei randagi li abbiamo incontrati di persona (tutti e 150) durante i nostri turni del fine settimana al canile, portandoli a passeggio anche tre per ciascuna nei terreni aridi che lo circondano. È stato amore a prima vista.


Intanto, nei giorni feriali eravamo impegnate con la rilettura su carta della nostra traduzione, attività che in genere procede piuttosto spedita, perché è soprattutto un lavoro di rifinitura. Come forse avrete già intuito, però, il romanzo di Rae DelBianco è stato un’eccezione anche in questo senso: la rilettura è stata lentissima, difficile e combattuta al pari delle fasi precedenti della lavorazione. A ogni modo, nella chiusa del romanzo compaiono un cane e alcuni suoi parenti, perciò, circondate com'eravamo dall’affetto dei randagi del canile di Simabô, la loro presenza ci è sembrata di buon auspicio:




E se eri cresciuto in quel modo, nel buio dei boschi e sotto stelle tremanti nel sudore che avevi sul viso, accanto al cane che rosicchiava una pelle non conciata e al padre che masticava tabacco, facendo scorrere sangue per vivere e respirare e tagliando alberi come se fossero fatti della stessa materia del bestiame, allora forse potevi correrci in mezzo, come i coyote o forse addirittura come i lupi, con un’ombra come quella proiettata dalle gonne di Lucy.




Se a questo punto vi è venuta la curiosità di scoprire i paesaggi popolati dalle ruvide bestie di Rae DelBianco, eccovi la copertina dell'edizione italiana.

E qui trovate la rassegna stampa aggiornata, con il trailer e una videointervista di Radio Popolare alla scrittrice.

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