martedì 13 febbraio 2018

Dire quasi la stessa cosa: la traduzione "elastica"

Se dovessi spiegare che cos'è la traduzione in meno di 10 parole, che cosa diresti?

Primo Levi l'ha definita "un compromesso"*, Carlos Ruiz Zafón "una matematica della parola" e spesso si parla di "ponte tra culture diverse", ma ultimamente a noi piace pensare che la traduzione consista nel dire quasi la stessa cosa.

Visto che le lingue non sono perfettamente sovrapponibili, infatti, non possiamo mai arrivare alla piena corrispondenza tra il testo originale e la sua traduzione, non possiamo mai dire "esattamente la stessa cosa" in un'altra lingua. Eppure è proprio quello che ci sforziamo costantemente di fare, in un tentativo donchisciottesco che ci lascia costantemente frustrate: se esistessero i campionati mondiali di masochismo, noi traduttori avremmo buone probabilità di vincerli...

Dire quasi la stessa cosa** è il titolo del libro che Umberto Eco ha dedicato nel 2003 ai problemi della traduzione letteraria. Fin dall'immagine di copertina suggerisce maliziosamente uno dei rischi della traduzione, e cioè che il "pappagallo" nel senso di attrezzo noto in italiano come "chiave a pappagallo", si trasformi in un qualcosa che porta lo stesso nome, ma che nella sostanza è completamente diverso, ossia un uccello.
Qui non stiamo più dicendo "quasi la stessa cosa", ma commettendo un errore di traduzione.


Se vogliamo cercare di tradurre al meglio, il nostro lavoro consiste in una costante riflessione sul concetto di "quasi".
Fino a che punto una traduzione è "quasi la stessa cosa" dell'originale e da che punto in poi diventa "un'altra cosa"? Quale margine di libertà abbiamo noi, come traduttrici, quando affrontiamo un testo, o, in altre parole: quanto dev'essere elastico il "quasi"?

"Dipende dal punto di vista," risponde Eco: "la Terra è quasi come Marte, in quanto entrambi ruotano intorno al sole e hanno forma sferica, ma può essere quasi come un qualsiasi altro pianeta ruotante in un altro sistema solare, ed è quasi come il sole, poiché entrambi sono corpi celesti, è quasi come la sfera di cristallo di un indovino, o quasi come un pallone, o quasi come un'arancia."

L'esempio di Eco presenta un "quasi" che si fa via via sempre più elastico: la Terra si trasforma prima in un pianeta diverso, poi perde l'accezione di pianeta e diventa più in generale un corpo celeste, dopodiché perde non solo l'accezione di pianeta e di corpo celeste, ma anche le proprie (notevoli) dimensioni per limitarsi a essere una sfera, piccola come un pallone o un'arancia.
La scelta di quanto discostarsi, nella traduzione, dal concetto di "pianeta" dipende dalla nostra valutazione del testo di partenza e delle possibilità offerte dalla lingua di arrivo.

Ma ecco, per chiarire la questione, un esempio inglese nel quale ci siamo imbattute, e alcuni modi in cui si può "dire quasi la stessa cosa".
Il testo che utilizzeremo come esempio è il titolo di un celebre spiritual, cantato dai neri americani ai tempi della schiavitù: Nobody knows the trouble I've seen.

1. Se si stanno facendo i primi passi nel mondo della traduzione, il modo più sicuro di "dire quasi la stessa cosa" potrebbe sembrare quello di tradurre parola per parola, discostandosi il meno possibile dal testo originale, e quindi:
"Nessuno conosce il problema che ho visto".
Questa è infatti la traduzione proposta da Google Translate, che come si sa non è proprio un maestro di stile. Infatti, qualunque redazione alla quale un traduttore proponesse una traduzione simile gliela rimanderebbe subito indietro. Tradurre significa non solo trasporre un testo da una lingua a un'altra, ma anche produrre una frase plausibile nella lingua di arrivo (se così era in quella di partenza), e quella di Google Translate non è certo una frase che si sente pronunciare spesso.

2. Bisogna allora discostarsi un po' dal testo di partenza, e per farlo occorre comprenderne bene il significato. Il succo del titolo inglese è che nessuno conosce le difficoltà che ho incontrato io nella vita; il seguito della canzone precisa che soltanto Dio le conosce (Nobody knows but Jesus), fornendoci un po' di contesto utile per tradurre meglio. Perciò l'approssimazione successiva potrebbe essere:
"Nessuno conosce i problemi che ho incontrato".

3. Ma la resa italiana n. 2, per quanto migliore rispetto alla versione 1, rimane un po' traballante: ancora una volta, in una conversazione normale o in un testo scritto, una frase come questa potrebbe suonare un po' goffa.
Possiamo allora rendere ulteriormente elastico il nostro "quasi" scrivendo qualcosa del tipo:
"Nessuno sa che guai ho passato".

E per te che cosa significa tradurre, e quanto è elastico il "quasi"?


Note
* La frase di Levi è tratta dal cap. VIII di I sommersi e i salvati"Lettere di tedeschi" (p. 1128 di Opere II, a cura di Marco Belpoliti, Einaudi, Torino 1997), nel quale lo scrittore racconta della traduzione tedesca di Se questo è un uomo. Temendo che il traduttore tedesco potesse travisare i contenuti del suo libro, Levi collaborò infatti strettamente con lui e in questo capitolo spiega il procedimento attraverso il quale arrivavano alla versione definitiva di certi dialoghi contenenti espressioni o termini rozzi usati nei lager: 
"io gli indicavo una tesi, quella che mi suggeriva la memoria acustica [...]; lui mi opponeva l'antitesi, 'questo non è buon tedesco, i lettori d'oggi non lo capirebbero'; io obiettavo che 'laggiù si diceva proprio così'; si arrivava infine alla sintesi, cioè al compromesso. L'esperienza mi ha poi insegnato che traduzione e compromesso sono sinonimi". 

** Il volume è ricco di esempi tratti dalle traduzioni dei libri di Eco in quattro lingue (inglese, francese, tedesco, spagnolo), dai quali si capisce che lo scrittore italiano intratteneva un fitto dialogo con i suoi traduttori stranieri, ne rileggeva le traduzioni prima che andassero in stampa e probabilmente incuteva un gran terrore alle redazioni straniere.

Nell'immagine si vede un'ex schiava di Fort George Island, in Florida. La foto è stata scattata ai primi del '900 ed è di pubblico dominio, reperibile qui

lunedì 15 gennaio 2018

Perché si diventa lettori (e da grandi si lavora nell'editoria)?

Come tanti genitori, forse vi scervellate chiedendovi che cosa fa di un bambino un futuro divoratore di libri e di una bambina una futura lettrice appassionata, in modo da poter dare queste utili abitudini ai vostri figli.
E pensando a voi stessi, sapreste dire perché avete sviluppato la passione per la lettura?

Queste sono le domande che si è posta anche Shirley Brice Heath, studiosa di antropologia linguistica, andando in giro per gli Stati Uniti negli anni Ottanta. Grazie alle sue ricerche ha trovato non solo le risposte, ma anche il motivo che spinge tante persone a fare dei libri il proprio mestiere.

La studiosa ha frequentato le "zone di transizione forzata", ossia i luoghi nei quali la gente è costretta a passare il tempo senza poter guardare la tv né, all'epoca, lo schermo del cellulare: ha visitato aeroporti, viaggiato sui mezzi pubblici, è andata nelle località balneari. Qui ha individuato coloro che, invece di fare qualcos'altro, leggevano opere letterarie di qualità, dopodiché li ha intervistati per scoprire come fossero diventati voraci lettori.


Innanzitutto ha scoperto che in genere queste persone avevano sviluppato la passione per la lettura quando erano bambine.

Quanto al perché avevano iniziato a coltivare un forte interesse per le opere letterarie, Shirley Brice Heath ha notato che i lettori appassionati ricadevano in due categorie:
  • quelli che si erano tuffati nei libri perché uno o entrambi i genitori amavano leggere;
  • quelli che da bambini erano degli "isolati sociali" e, sentendosi diversi da coloro che li circondavano, avevano stabilito un dialogo con gli autori dei libri che leggevano.


E la studiosa non si è fermata qui: intervistando tantissimi romanzieri, è giunta alla conclusione che i lettori del tipo "socialmente isolato" hanno molte più probabilità di diventare scrittori (e, aggiungiamo, forse anche traduttori e redattori?) rispetto a quelli che hanno iniziato a leggere imitando il modello genitoriale.

Se la lettura era il mezzo di comunicazione preferito durante l'infanzia, da adulti la scrittura (così come, ipoteticamente, la traduzione e la redazione) può essere tra i canali privilegiati per connettersi al resto del mondo.

Per quanto ci riguarda, dobbiamo dire che la teoria di Shirley Brice Heath è fondata.
Certo, abbiamo qualche resistenza ad ammettere che da piccole eravamo due "isolate sociali", ma per fortuna Jonathan Franzen, che all'argomento ha dedicato questo saggio, ci rassicura affermando che "il fatto di essere un bambino socialmente isolato non condanna automaticamente a diventare un adulto imbranato alle feste e con l'alito cattivo".

Che ci dite di voi, vi riconoscete in questi risultati?


Le foto sono di Visualhunt.com.